Su richiesta della Fondazione Fabrizio De André (www.fondazionedeandre.it),
John descrive il suo rapporto con la figura artistica dell’indimenticato
cantautore genovese.
Riportiamo qui il commento pubblicato nel libretto della
riedizione del cd “Fabrizio De André e PFM in concerto” allegato al settimanale
Tv Sorrisi & Canzoni in edicola
questa settimana:
“Ho scoperto Fabrizio De André piuttosto
tardi in vita mia. Sicuramente per via di quei miei pregiudizi (spesso “post giudizi”)
relativi a una progressiva involuzione del cantautorato (dell’Arte tutta
generalizzando), sempre più prona alle volontà del Mercato che, sebbene spesso
non corrispondano alle reali volontà del pubblico, plasmano il gusto, il senso
critico, il nostro linguaggio.
Un altro motivo potrebbe essere stato
quel disequilibrio tra parole e musica che ho spesso trovato nella canzone
d’autore e che ad alcuni parrà un’eresia. Sempre generalizzando, la funzione
principale nella canzone d’autore è l’ascolto (nella migliore delle ipotesi la
condivisone) del testo, il racconto che si muove su una base musicale più che
altro d’accompagnamento. Non è certo una modalità sbagliata: è la sua funzione.
Sarà forse una mia “disfunzione” non riuscire a non ascoltare anche la musica,
musica che secondo me potrebbe potenzialmente moltiplicare le parole.
Ciò premesso, non ricordo il giorno
esatto, ricordo però fu il giorno in cui, per qualche motivo forse concomitante
con un mio umore di quel periodo, presi in esame le parole del brano “Amore che
vieni, Amore che vai” che avevo sempre sentito ma distrattamente. Da quel
giorno l’essenza di quelle parole diverrà per me paradigma del concetto
“complessità della semplicità”. Confesso, ed è la verità, di aver pensato di
smettere, di cambiare mestiere. Nessun altro cantautore potrà parlare d’Amore
in termini tanto poetici e terreni e così umani, in quell’idiosincrasia di
razionalità e passione. La profonda semplicità di versi come “… e tu che con
gli occhi di un altro colore mi dici le stesse parole d'amore” e
soprattutto “io ti ho amato sempre, non
ti ho amato mai” fu per me disarmante. Ricordo bene quel giorno: confessai
la mia scoperta a scoppio ritardato al mio amico e maestro Franco Ranieri.
Da un lato mi sentivo scoraggiato, dall’altro
cambiato. Per sempre. Franco capiva il mio sgomento, del resto lo aveva spesso
citato tra le nostre divagazioni. Grazie a quel brano mi avvicinai poi al resto
della produzione artistica di Fabrizio De André.
Nonostante abbia interpretato diverse sue
canzoni non mi sono mai permesso di imitarlo. La poetica di certi suoi brani è
unica e inarrivabile. Le sue vette linguistiche si guardano come le opere
iconografiche dei grandi maestri. Inoltre, fatte le debite proporzioni,
probabilmente è anche influenza sua la mia necessità di inventare personaggi.
Per un motivo o un altro mi sono trovato
spesso vicino alla figura artistica di Fabrizio De André. Per esempio in
occasione della compilation “Canti Randagi”, cui ho partecipato con il gruppo
Bevano Est interpretando “Il Suonatore Jones”. In proposito posso svelare una
curiosità: l’idea del titolo della compilation fu data dallo stesso De André.
Fabrizio durante una chiacchierata con la sua manager Adele Di Palma (la quale
oggi, posso dire con orgoglio, si occupa di me), frappose quasi a caso quel
gioco di parole che Adele non dimenticò. Oltre che lusinghiera fu anche
divertente la delicata commissione di reinterpretare il brano in dialetto,
romagnolo nel nostro caso. Per l’arrangiamento attingemmo anche ad altre
musiche al di fuori della canzone. Cercando altri significati musicali a quelle
sue parole universali. La musica popolare, il vasto territorio dal quale sia io
sia Bevano Est in fondo proveniamo, è un mondo dal quale migrare, per suonare
le parole di tutti verso altre frontiere. Così abbiamo reinterpretato De André.
Niente di particolarmente originale, tentando qualcosa di personale, di
autentico e nel rispetto per l’autore.
Tra le opportunità di omaggiare De André capitatemi in carriera, ne
vorrei ricordare una di eccezionale responsabilità. Forse pochi sanno che “Il
Lupo”, l’amico Stefano Benni, sottopose a Fabrizio il suo testo “Quello che non
voglio”, peraltro a lui dedicato, per essere musicato. Non credo esistano
testimonianze audio ma pare che De André avesse cominciato ad attribuire alcuni
accordi alle parole di Benni. L’improvvisa scomparsa del cantautore genovese
lasciò poi l’opera incompiuta. Alcuni anni più tardi il Lupo chiese a me di
riprovarci. Coinvolsi un altro amico Guido Facchini, grande conoscitore di
Musica; insieme studiammo anche quei codici degli chansonniers francesi, fino a Brassens cui De André è stato
notoriamente ispirato. Studiammo i codici per poi reinterpretarli: sarò
sconsiderato ma sulla Musica mi pongo meno censure. All’arrangiamento partecipò
anche il grande violoncellista Paolo Damiani al quale Benni nel frattempo aveva
già chiesto di tracciare qualche guida melodica. Lavorammo al brano per mesi.
Nell’enfasi del coinvolgimento al progetto azzardai al Lupo la possibilità di
cambiare il titolo in “Chiudete la cella”, una frase del testo. Nell’agosto del
2001, accompagnato al violoncello da Damiani e con la voce recitante di Benni,
presentammo “Chiudete la cella” al Festival Internazionale di Roccella Jonica.
Proprio dove pochi anni prima De André aveva tenuto il suo ultimo grande
concerto. Senza retorica, nell’aria c’era una tensione ineffabile. Fu un
tripudio. Purtroppo un evento unico. Ci ripromettiamo sempre di registrarlo, e
prima o poi lo faremo.”