29 marzo 2010

RECENSIONE > John De Leo, ovvero Elogio dell'Intravisto

Concerto del 28.03.2010 c/o Arterìa (BO)

In una grotta, o in una caverna ci si vede poco, lo diceva anche Platone.
Ci sono ombre, che non sono verità. Non mi ricordo se il filosofo greco parlasse di suoni, ma quasi sicuramente, no. Ieri notte la situazione era surreale per diversi aspetti, all'Arteria di Bologna: non si vedevano che ombre vivide sulle pareti, non si sentivano che suoni straziati da casse acustiche frante da rimbalzi troppo brevi da parete a parete, eppure tutto sembrava perfettamente normale; una tale concretezza di suoni e di visioni non poteva che essere frutto di qualche artificio.
Come se uno di noi, perfetti sconosciuti stipati in una caverna, avesse detto per scherzo, Ora salgo su una sedia e vi faccio vedere, e noi a sentirci migliori perché lui, uno di noi, era davvero bravo. John De Leo ti fa questo effetto a vederlo, se lo vedi, almeno di sfuggita. Uno che usa la volontà per fare quello che fa, e la tecnica gli viene dietro, ammirata da tanta alta fantasia. Se non lo vedi, se davanti a te quattro teste formano illusioriamente un muro serrato che ti impedisce di spingere lo sguardo oltre un metro e mezzo dal tuo naso, ti sembra che, non una, ma venti persone siano salite su altrettante sedie, e abbiano iniziato a vocalizzare tutto quello che hanno dentro. "Uno di noi" è una locuzione che uso, parlando volgarmente e da profano di musica, per definire la dimensione acustica e artigianale del canto di De Leo (sarà l'effetto della ricerca continua, dell'improvvisazione?).
Anche quando canta con trasporto lirico "Siamo sospesi, siamo panni stesi ad asciugar" non è pop, non è l'aria che ti aspetti dopo il parlato, ma una rapida incursione a riempire una forma - la forma-ritornello - che la mente eclettica del compositore/esecutore si concede nella sua estenuante ricerca di modi e ritmi, di timbri e febbri. Dico alcuni nomi a caso, Bobby McFerrin, Ella Fitzgerald, Janis Joplin, Franco Battiato, Eddie Vedder, un cantante lirico a caso, qualcuno che canta in falsetto, voci da cartone animato, ci sono tutti, presi, ingoiati, strapazzati, spiegazzati, sputati, stirati, dopo una distillazione talmente potente da trasformare ogni ispirazione in uno strano amalgama di noto e di ignoto.
E' un labirinto, la voce di De Leo, sembra un falso sillogismo di Charles Lutwidge Dodgson (in arte Lewis Carroll): ha la capacità di seguire dei fili che solo apparentemente sembrano logici, quel tanto da tenerti legato alla melodia dall'inizio alla fine. Non ci si perde, lui rimane il centro del suono che si diffonde invisibile e penetrante nella sala gremita di gente. E' quasi un mantra. Poi, lo vedi, è solo, è solo un uomo.
L'unica eco è la chitarra di Fabrizio Tarroni. De Leo sta curvo in avanti, chiuso in sé e concentrato. Si piega indietro. Ogni movimento di un artista ha un significato, dentro e fuori di lui. Anche i gesti di John De Leo, come la sua voce, sono vari. Scherza, su un canovaccio recitato in varie occasioni, sulle crisi di identità. Giustamente ci ridiamo su, noi del pubblico, colpevoli anche noi ma fiduciosi in una imminente catarsi. Si diverte? Io, sì, e molti altri ridono, in varie occasioni. Io rido per la meraviglia, rido per gli effetti che la sua musica ha (o non ha) sulle persone.
Accanto a me ride anche una ragazza incinta. Il bambino che porta nel grembo avrà la voce di John De Leo che lo accompagnerà inconsciamente per tutta la sua vita.

fonte: Impossibile Fuggire